Quando Viterbo era inquilina ai piani alti della storia

Viterbo – “Viterbo dei papi, la capitale che non fu” è il titolo della nuova passeggiata/racconto di Antonello Ricci in collaborazione con Tesori d’Etruria – Viterbo Sotterranea. Con la partecipazione di Pietro Benedetti. Un’imperdibile passeggiata che va dalla rocca Albornoz a palazzo dei papi scendendo per valle Faul da san Giovanni decollato e poi risalendo.

L’appuntamento è per venerdì 6 giugno alle 21 in piazza della Rocca a Viterbo, di fronte la rocca Albornoz. Itinerario: piazza della Rocca, piazza san Faustino, Trinità, Lazzaretto, via san Giovanni Decollato, via san Clemente, piazza san Lorenzo, ponte del Duomo, Viterbo Sotterranea.

Si può provare a narrare la storia (fulgidissima) di una Viterbo città dei papi senza cadere nella consueta trappola della sagra di Strapaese?

Sì, direi di sì, ma a un patto: mandiamo indietro la ruota della storia. Riavvolgiamo il nastro. Ripartiamo da cocci rotti e tubetti di dentifricio mezzo-spremuti. Da malinconie nostalgie desolazioni-depressioni del nostro particolarissimo Dopo-storia: il Dopo-papi. Rimettiamo in fila, come grani in un rosario, eventi e favole succeduti, saecula saeculorum, a quella sfolgorante stagione di protagonismo: 1257-1281: 9-papi-9: Viterbo inquilina ai piani alti della Storia.

Proviamo allora: partiamo à rebours.

Un’epigrafe con data sbagliata sotto il portico di palazzo dei Priori.

Il palazzo comunale stesso: sul principio destinato a prefettura per il “viceré” papale ma presto frettolosamente declassato – per arbitrio romano – a sede di un potere municipale dimezzato nei poteri.

Una rocca tirata su (un secolo e mezzo prima, o giù di lì) dal cardinal guerriero Albornoz: il quale spostò con vistosa retorica urbanistica il baricentro della città per riscrivere i destini politici di un libero e recalcitrante comune sotto rinnovato giogo papale.

La lapide tombale di un uomo di chiesa e scrittore di cose locali strenuo assertore (ancora ai giorni della rivoluzione francese) delle favole di quel frate domenicano del tardo Quattrocento chiamato Annio da Viterbo: venuto, quest’ultimo, a medicare nell’immaginario cittadino il lutto per la mancata capitale (mancata per un soffio… certo… lo sappiamo). Il suo rimedio? La smisurata panzana di una tetrapoli originaria fondata nientedimeno che da Noè.

C’è poi il chiostro della Trinità: uno spazio così elegante e luminoso da sembrare più il cortile di un palazzo della Roma repubblicana. Luogo voluto pensato e tradotto in misurate forme, sul principio del Cinquecento, da Egidio da Viterbo: generale dell’ordine degli agostiniani, a quel tempo, nonché figura di spicco del circolo degli spirituali (riuniti proprio a Viterbo, intorno a Vittoria Colonna). Se a Trento avessero vinto loro – il “partito” di Reginald Pole – per la Chiesa e per l’Europa intera sarebbe stata tutta un’altra storia. Accidenti.

Scendiamo giù, adesso, verso il piano di Faul: rievochiamo una notte di tregenda, il miracolo di un’immagine sacra d’inizio Trecento (fu quando la città minacciò di precipitare inabissata all’Inferno). La meravigliosa, poetica leggenda di Maria Santissima Liberatrice, che al tempo della cattività dei papi in Avignone tuffò diavoli e corvi in brodo al Bulicame, “scampando” Viterbo (almeno temporaneamente) dai frutti più velenosi delle sue lotte fratricide.

Infine “lui”: lo splendido palazzo dei Papi (con loggia “ricamata”), fabbricato alla metà del Duecento sul colle più antico della sedicente Vetus Vrbs. Protagonista, nel bene e nel male, la famiglia viterbese più potente di sempre: quella che corre e spicca salti (tali le virtù dei gatti e quindi dei Gatti). Viterbo città dei papi, perciò, sotto l’egida gattesca: un papa simoniaco (ma solo per equivoco); uno loico mirabile ma anche alchimista perso (fino a farsi saltare in aria con la sua stanza); un papa incorruttibile da cui prendere esempio ancora oggi; un altro nepotista, invece, fino al midollo; ma anche un papa-giammai-papa: asceso al Soglio cioè e morto in uno stesso giorno; e per chiudere, un papa così ghiotto di anguille da finire in proverbio

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