CIVITAVECCHIA – Passeggiando per il mercato cittadino in un affollato sabato mattina si respirano i sapori misti e variegati di una città di porto: ai banchi della frutta e della verdura, si alternano le colorate stoffe di qualche indiano, occhiali e borse dei banchi arabi e i mille gadget dei venditori cinesi. In molti angoli, ragazzi africani chiedono l’elemosina: qualcuno è stanco, e se ne sta accasciato come a riprendere energia. Altri ci portano un po’ di sole dell’Africa, improvvisando un canto, accennando una danza. La gente che si affolla tra un banco e l’altro sembra abituata alla loro presenza: alcuni li ignorano, altri fanno cadere qualche moneta nei loro berretti invitanti. Il mercato è solo una delle tante zone della città che, da molte settimane, si riempie fin dalle prime ore del giorno della presenza di immigrati in cerca di soldi, in attesa di qualcosa. Ma che ne pensano veramente i cittadini? “Cosa devo pensare…” ci dice un signore di mezza età fermo al banco del pesce, “per carità, non ho nulla contro di loro, capisco che abbiano bisogno. Ma sono tanti, e spesso le loro richieste di soldi diventano veramente insistenti.” Sono troppi. Troppi in giro per la città a chiedere, chi più discretamente, chi con più invasione, un aiuto. “Credo che la responsabilità sia dell’amministrazione – aggiunge il signore – dovrebbero garantire strutture adeguate di accoglienza, che permettano a questa gente magari di essere impegnata in qualche attività anche durante il giorno. E poi mettiamoci d’accordo: si tratta di strutture temporanee o permanenti?” L’ospite, dopo un po’, puzza, sembrano voler dire molti dei nostri interlocutori. Specie in una città che di disagi risente da più parti, insoddisfatta e arrabbiata come molte purtroppo, in questa Italia sfasciata. Quando l’insoddisfazione cresce, lo si sa’, c’è bisogno di un capro espiatorio. Così Enrico, disoccupato e alla disperata ricerca di un sussidio, non sembra molto felice di questa “invasione di campo”: “Tutti abbiamo bisogno di aiuto e la carità cristiana è la prima cosa. Ma qui ci sono già tanti problemi da risolvere. Io non posso lavorare per un problema alla schiena e non riesco a ottenere niente dal Comune: il sussidio non me lo danno per un problema di residenza, e così sono continuamente in attesa… l’amministrazione non si interessa, neanche valuta se la mia situazione sia davvero d’emergenza”. Quindi, crede che la presenza di questa gente in città distolga l’attenzione da altri problemi? “Certo, la nostra situazione è già di emergenza, non possiamo farci belli aiutando gli altri e dimenticarci di noi stessi”. Noi, l’”Altro”. L’”altro” da sé che da sempre ha generato fratture, ridisegnato i confini, spaventandoci con quel suo continuo obbligarci a metterci in discussione. Questi “altri” per Enrico sono “sistemati” molto meglio di lui: hanno un tetto sotto la testa, e a volte lui li ha visti anche al bar “a comprarsi da bere”. E se c’è chi, come la signora Giustina, pensa che si debba sempre ricordare quando noi eravamo migranti e “ci morivamo di fame”, altri come Mario e Giuseppe non ci vanno tanto per il sottile. Mario ha una teoria, una soluzione drastica che risolverebbe tutto: “Questi scansafatiche bisognerebbe tutti vestirli con una divisa militare, armarli di mitra, e mandarli al loro paese ad ammazzare chi li ha cacciati, chi li fa’ vivere nella miseria. Se la risolvessero così la loro Storia, noi possiamo anche pagargli un piccolo sussidio per mandarli a combattere, ma non li manteniamo certo qui a non far niente, mentre a noi ci tagliano tutto.” Una teoria interessante, come l’ha pensata? “Era come quando noi combattevamo nella Legione Straniera, lì si che si facevano i soldi. Mio padre era partigiano, ha combattuto i fascisti, che prendano il mitra e ammazzino chi li opprime”. Una revisione originale della Storia, quella di Mario, condita con i suoi toni accesi e le espressioni colorite. La cosa che ci colpisce, continuando la nostra camminata, è vedere come, fermandoci a parlare con i venditori indiani o arabi, la percezione della “tolleranza” cittadina sia piuttosto differente. “La gente è brava – ci dice Mohammed – aiutano questi ragazzi, gli danno soldi e sono gentili con loro”. Quindi pensi che siano accolti bene dalla gente di qui? “Assolutamente sì”. Una Civitavecchia accogliente, comprensiva, aperta alla collaborazione… mentre riflettiamo su quello che ci ha detto Mohammed, decidiamo di chiedere conferma a John, uno dei diretti interessati. John viene dall’Algeria, ha sempre lavorato come muratore al suo paese. Non parla italiano, ma ha un inglese migliore della maggioranza degli italiani. Ci prendiamo un caffè, e la prima cosa che John sottolinea è che le persone qui sono “very kind”. Le persone sono tutte gentili: non hai trovato nessuno che ti ha dimostrato un po’ di insofferenza? “No, mai. Mi aiutano e sono gentili con me.” John vive nel campo, ha 17 euro alla settimana da spendere per i pasti. Vuole trovare lavoro, ma prima deve imparare l’italiano. Al campo ci sono degli insegnanti, si sta mettendo sotto per imparare in fretta. Vorrebbe trovare lavoro qui e restare. I civitavecchiesi gli piacciono perché sono allegri e “religiosi”. Per John la religione è importante, tutte le domeniche va’ in chiesa, e lì sta davvero bene. John ci dipinge un’altra faccia della città: non sappiamo se sia il suo ottimismo a colorarla così, o non sia invece che gli occhi dell’”altro”, ancora una volta, ci abbiano suggerito quanto è possibile, nonostante tutto, sorprendersi della “nostra” quotidiana bellezza.
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