Al Traiano si celebra la gioia di vivere con “L’astice al Veleno” di Salemme

vincenzo salemmeCIVITAVECCHIA – “Viva la vita!” è il motto con cui, tra musiche e canti, si sono chiuse le due ore di spettacolo che Vincenzo Salemme e la sua compagnia hanno portato ieri sera al Traiano. Un inno alla vita salvifico – specie in una plumbea giornata come quella di ieri – sperato, liberatorio, ampiamente condiviso dalla sempre affollata platea del teatro. Come già con Massimo Ranieri la tradizione partenopea – che mai come quest’anno è presente in così larga scala sul palcoscenico del Traiano- si mostra abilissima nel ribaltare anche la più funesta delle situazioni in una possibilità di rinascita, in un’occasione di gioia. Questo è anche il messaggio fondamentale che Salemme vuole veicolare attraverso la complessa macchina scenica de “L’astice al Veleno” una sorta di ‘favola di Natale’ alla napoletana (a Natale si svolge) in cui i pensieri di morte, complice anche un po’ di magia, si trasformano in sentimenti d’amore. Così un pony express tenero e pasticcione irrompe letteralmente nella vita di Barbara (Benedetta Valanzano), attrice frustrata costretta a vivere rifugiata nel teatro diretto dal regista che è anche il suo amante (Maurizio Aiello), uomo spostato e palesemente doppiogiochista. Barbara, confinata in un mondo di finzioni, con a farle compagnia le sole statue del teatro e un pubblico immaginario di cui riesce a sentire le voci, decide di farla finita con le illusioni e di “inscenare” il delitto perfetto: in quel teatro servirà a lei e al suo amante un pranzetto di anti-vigilia a base di astice e vino al cianuro. Ad evitare la catastrofe non può che arrivare (deus ex machina per eccellenza) Babbo Natale: qui a vestirne i panni è appunto l’imbranato Pony Express (Salemme) che consegna pacchi natalizi. Tra statue parlanti e danzanti (forse reminescenze de “Il Gobbo di Notre Dame”), piccoli equivoci e giochi metateatrali, la commedia procede come in una serie di scatole cinesi, rivelando una dietro l’altra le sue molte facce. Ora, se da un lato di Salemme si apprezza l’indubbio talento nel coniugare elementi farseschi ad una certa profondità drammaturgica che in alcune precedenti prove tocca il suo apice – si ricordi su tutte “E fuori nevica”- non si può fare a meno di notare una certa sua tendenza allo strafare che in certi casi può risultare fastidiosa. Così se la commedia procede per tutto il primo atto secondo un certo equilibrio di forma e contenuto, precipita nel secondo in un confuso – e a tratti rumoroso – pastiche. Il meccanismo del teatro nel teatro aiuta Salemme a spezzare a suo piacimento lo sviluppo drammaturgico, come in quell’inizio di secondo atto in cui, rotta definitivamente la “quarta parete”, si chiede esplicitamente che il pubblico si faccia “autore” della commedia, ipotizzando possibili continuazioni per la storia. Giusta e divertente intuizione, che tuttavia si rivela poi essere solo l’occasione per Salemme di cominciare un “a solo” di quindici minuti, sorta di “a tu per tu” con il pubblico in cui si rileggono con ironia scottanti e attuali problemi comuni. La favola comica si concede così un intermezzo, una sosta per lasciare la parola ad un dialogo tra il primo attore e il pubblico, ma poi non si riprende più, forzata verso un frettoloso finale che mescola decine di intuizioni senza approfondirne nessuna. Nulla togliere alle occasioni di divertimento, che comunque si presentano generose e “democratiche”; ci chiediamo solo se, pure con un “minestrone” meno condito, il risultato si sarebbe comunque raggiunto.

Francesca Montanino