CIVITAVECCHIA – Si chiama “Il Celacanto”, come il pesce fossile, relitto della memoria acquifera, creatura mitica e multiforme. È il titolo che Michele Capitani ha scelto per la sua narrazione poetica (edita da Zona Editrice, 2011), per il suo viaggio liquido e fluido nella memoria di se. E’ un racconto complesso quello che ci è concesso di ricostruire, tappa per tappa, immergendosi nella sua poesia.
Di immersione si tratta, nel vero senso del termine, dato che il mare con i suoi abissi sconfinati è il protagonista assoluto di questo percorso nel tempo. Molte acque attraversa la poesia di Capitani: dalle sorgenti mitiche del Mediterraneo, agli insondabili oceani, alle rive del Bosforo, crocevia tra Oriente e Occidente. Acque che il corpo nudo può permettersi di attraversare, sondandone con la propria pelle le correnti e i fondali, alla ricerca dei propri relitti. Talvolta si preferisce non spingersi troppo a fondo, lasciare che ciò che il mare nasconde resti inconoscibile e inafferrabile. Altre volte ancora, è necessario che qualcosa ci trasporti nella traversata, magari un traghetto, non-luogo galleggiante, spazio di transito, intermezzo necessario. A fare da tappe obbligate, le isole, interruzioni terrestri del ritmo acquatico costante e infinito: patrie mitiche, spazi della malinconia, anfratti della memoria. Quanto sono importanti questi porti, questi approdi, in un viaggio sconfinato come quello che “Il Celacanto” racconta? “Le isole hanno valore a seconda di quanto è importante lo spazio vuoto intorno – ci spiega limpidamente il suo autore – allo stesso modo delle parole: non più strumenti di orientamento sicuri, bussole infallibili, ma ‘mappe vuote’ , stratificazioni di senso continuamente rimescolabili”. Le parole possono aiutare a mettere ordine, ma Capitani non fa di esse una corazza, un terreno sicuro a cui appoggiarsi: “Il vocabolario di cui faccio uso nelle mie poesie lo attingo da un mio archivio in continuo aggiornamento. Ma le parole (usate, abusate e reiterate) non sono il solo strumento di conoscenza. Nelle mie poesie tento di dare importanza anche allo spazio bianco intorno alle parole stesse”. Più che l’approdo, è l’atto stesso del viaggiare che conta nella poesia di Capitani: la sua maturità linguistica sta tanto nell’esattezza con cui seleziona il suo vocabolario, tanto nei respiri che si concede tra una parola e l’altra, quasi a dirci che il silenzio è spesso la forma migliore di consapevolezza. Riemerse da questo mare infinito, le parole sembrano recuperare così tutto il loro senso, la loro pregnanza. Del resto, dopo ogni viaggio, il ritorno è sempre una riscoperta, una trasformazione. Così in questo “Celacanto”, ci si può perdere nel viaggio, temendo di non tornare, di naufragare, ma quando poi si arriva, ci si porta appresso i segni indelebili della scoperta. Dietro a questa bellissima traversata nella perdita e nella riscoperta del se, immaginiamo ci debba essere un vero viaggiatore. L’autore ce lo conferma: “Sì, viaggio molto, confesso che non riesco a smettere. Molti dei miei viaggi popolano questa raccolta di poesie. Mi sono ritrovato a segnarli sull’atlante, come a ricostruire il percorso.” A noi lettori invece, non resta che abbandonarci alla traversata, felici di navigare questi mari, negli spazi infiniti tra un’isola e l’altra.
Francesca Montanino