CIVITAVECCHIA – Dallo scrittore Arnaldo Gioacchini riceviamo e pubblichiamo
In questi ultimi tempi nei quali parte del nostro Paese vive vere e proprie devastazioni ambientali, a chi scrive tornano chiarissimi alla mente gli, altrettanto tremendi, giorni del 4 Novembre 1966 quando, prima a anonimo militare e poi da anonimo civile (nomato poi, insieme a tanti altri giovani di varie nazionalità, come Angelo del Fango) visse, in prima persona, la terribile alluvione causata dal fiume Arno che devastò in particolare, ma non solo, Firenze ed il suo hinterland con punte d’acqua che nel quartiere di Santa Croce raggiunsero l’altezza di oltre 6 metri devastando tutto quello che di culturale, umano e produttivo era devastabile. Ben ricordo che si trattò di un venerdì, checché festivo in quanto Festa delle Forze Armate e che, proprio per quel motivo, dall’Istituto Stati Maggiori Interforze, che era allocato presso la SGA (Scuola di Guerra Aerea) dell’Aereonautica Militare alle Cascine, ove svolgevo, come soldato di leva dell’Esercito, il servizio militare, avendo dei parenti residenti a Firenze mi fu concesso il pernotto esterno nella notte che andò dal 3 al 4 novembre. Ricordo bene come, purtroppo, c’era all’epoca una pioggia fittissima ed insistentemente battente su Firenze già dal giorno 30 ottobre. I miei parenti abitavano al primo piano di piazza Verzaia, in una bassa palazzina posta nel quartiere di San Frediano subito superata la Porta omonima, e non si aspettavano certo ciò che stava per accadere. Abituato in caserma, in quel periodo come di consueto, mi svegliai prestissimo (stava appena albeggiando) e nel maggior silenzio possibile per non disturbare mio cugino che, come apprendista pellettiere, il giorno prima aveva lavorato, fino a tardi, in una bottega artigiana del quartiere, aprii subito la finestra e relative persiane richiamato da un rombante continuo rumore assolutamente inconsueto inserito, per il resto, in un inquietante silenzio assoluto vedendo immediatamente che sotto la via di San Frediano era percorsa da un fiume consistentissimo d’acqua di colore marrone venata, più che intensamente, da grandi strisce di gasolio maleodorante, con l’acqua che già era giunta a metà dell’altezza del portoncino d’ingresso per circa un metro d’altezza, per cui infilatami con gran velocità la divisa scesi in strada (faticando non poco ad aprire il portone) mettendomi, acqua alla cintola, ad attraversare la piazza Verzaia per raggiungere il lungarno ( che è subito a ridosso di essa) ricevendo nel frattempo dei gran bei colpi sulle gambe che, più volte, mi fecero piegare a filo d’acqua in quanto, sotto la veloce corrente, venivano giù già fusti metallici, bombole e chissà cosa altro ancora di pesante. Giunto a ridosso dell’Arno, vicino allo storico Circolo “ la Rondinella”, all’ingresso di ponte Amerigo Vespucci notai, con innegabile spavento, che sia vicino che lontano fin dove, nonostante la giornata atra riuscii a giungere con lo sguardo, il fiume, in alcuni punti, già aveva superato le spallette e che , ove ero, lo stava per fare e che il ponte stesso, un pochino più rialzato rispetto al lungarno, già veniva lambito da fortissime ondate d’acqua, con relativi potenti spruzzi d’impatto, causate dalla corrente vorticosa che veniva giù correndo velocissima verso la lontana foce tirrenica. A quel punto decisi di impedire a chicchessia di transitare sul ponte mettendomi di traverso all’imboccatura del ponte dicendo anche ad un anonimo poliziotto di correre immediatamente dall’altra parte quella di Borgo Ognissanti e fare la stessa cosa. Resistetti per circa mezz’ora fino a che l’Arno non iniziò a passare sopra il ponte andandolo a coprirlo completamente impedendo qualsiasi visuale dell’altra sponda con una corrente talmente forte che dovetti attaccarmi ad un palo di un segnale stradale per non essere travolto riuscendo con estrema fatica a girare l’angolo di un palazzo, che almeno mi protesse dall’impetuosa ed inarrestabile corrente che c’era sui lungarni, riuscendo in tal modo anche a riattraversare Piazza Verzaia raggiungendo il portoncino di casa dei miei zii e dei miei cugini che erano, estremamente impauriti, alla finestra come tante altre persone, al che gli dissi subito di scendere che avremmo attraversato la Porta San Frediano in modo di metterli al sicuro al quarto piano di un settecentesco palazzo abitato da loro cari amici ove anch’io, zuppo fino al midollo e stanchissimo, salii tutte le ripide scale per crollare esausto sulla branda del decano della famiglia, il vedovo nonno Aristodemo un “fegataccio” che aveva fatto la prima Guerra Mondiale negli Arditi e che, di buon grado, vedendomi in divisa mi cedé subito la sua stanzetta dotata di relativa e funzionante stufa a legna. Due mattine dopo rientrai, a nuoto, alla SGA, sita nel parco delle Cascine, la quale, presa fra la piena dell’Arno da una parte e quella del Mugnone dall’altra, aveva visto crollare parte delle mura di cinta con il piccolo zoo posto a ridosso di esse completamente distrutto con gli animali o morti o fuggiti (con un cinghialone talmente inferocito che, purtroppo, dovettero abbatterlo nei locali della foresteria) dopo aver varcato, ovviamente a nuoto, quel che rimaneva dell’ingresso impattai subito il generale di divisione aerea comandante della SGA il quale, dalla zona all’asciutto ove stava, mi disse che ero la prima persona che vedevano dopo l’alluvione e che non avevano avuto più nessun collegamento con l’esterno con tutte le linee telefoniche saltate e se me la sentivo di riuscire di nuovo a nuoto per andare a segnalare (dove lui mi disse) quanti militari erano ivi isolati, da tre giorni, senza vettovaglie, comunicazioni, etc. Nell’occasione vidi anche i due sottoufficiali dei Carabinieri, rifugiatisi sul tetto di una palazzina, che mi fecero ampi cenni di saluto, i quali erano fissi con noi tenendo l’Istituto, con tanto di documenti, presso la SGA Corsi per militari a livello di ufficiali NATO.Riuscii, di nuovo a nuoto ad uscire dalla SGA, per chiedere i soccorsi, attraversando una splendida città d’arte che la furia dell’acqua aveva violentato nella maniera peggiore. Causa i suddetti tragici eventi, pur essendo già congedante, rimasi a Firenze per oltre altri quindici giorni il limite previsto continuando a spalare fango e topi morti ( fra l’altro la sanità militare ci dette anche delle pasticche contro il tifo che però non presi dandole ai civili). Una volta congedato tornai immediatamente, da borghese, a Firenze e per altri tre mesi continuai a lavorare da “Angelo del Fango”, insieme a tanti altri giovani provenienti da tutto il mondo, dividendo le mie giornate fra la Biblioteca Nazionale, il quartiere di Santa Croce e quello di San Frediano a cercare di recuperare, salvaguardare e magari ripulire quante più cose fosse possibile di natura culturale, e non solo, all’interno di una città orgogliosa che fu sì piegata dall’alluvione ma non vinta. Una città la quale, in sole 12 ore, vide cadere su di essa 80 milioni di metri cubi d’acqua e che contò “solo” 35 morti e questo perché si trattò di un giorno festivo e la fortissima incidenza dell’alluvione costrinse la gente in casa. Correva appunto il 4 novembre del 1966 sono passati ormai 58 anni ma, personalmente, la tragica alluvione di Firenze la ricordo, in tutti i più piccoli dettagli, come se fosse accaduta ieri, ed in tutta sincerità che poi quanto ho fatto durante l’alluvione di Firenze sia stato determinante al fine del riconoscimento prima di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana e poi di quello di Ufficiale sempre al Merito della Repubblica Italiana mi ha fatto sicuramente piacere, anche se poi penso proprio che come operai in quel tragico periodo fu solamente dettato da quanto, più che convintamente, sentivo di fare. Fra l’altro ripeto, come ho scritto nell’incipit, ricordo benissimo, che la tragica Alluvione di Firenze, fu da me vissuta così intensamente tanto da scolpirsi indelebilmente nella mia memoria e soprattutto nel mio vissuto formativo, accadde di venerdì, mentre quest’anno, nel 2024, il 4 Novembre “cade” di lunedì.
Arnaldo Gioacchini