Un’esistenza di scrittura, quella di Gabriel García Márquez: in lui, l’urgenza di una scrittura che sfama l’anima si mescola a quella della denuncia. Nei suoi romanzi, come Foglie morte e L’amore ai tempi del colera, si può assaporare il realismo magico, quello di una realtà sublimata e spaventosa, senza requie e tregua per chi la popola e che ispirerà Paolo Choelo e Isabel Allende. Marquez fa parte di una schiera di scrittori latino americani che recuperano la dimensione del romance, del sentimento percepito come sviscerale, come la “paura scatenata dalla guerra”.
Le leggende e la storia di un popolo diventano le due facce di una stessa medaglia, così come avviene in Cent’anni di solitudine. La realtà che racconta nei romanzi diviene nuda e cruda per il Márquez giornalista; nella sua produzione di articolista si può scorgere l’eco della dittatura di Pinochet, una delle dittature più terribili dell’America Latina.
Ma, nonostante le brutture della vita e della storia, Márquez è uno scrittore d’amore. Tale sentimento anche se possiede potenzialmente una “forza demoniaca” (si veda Dell’amore e di altri demoni ) viene percepito dallo scrittore come fonte di salvezza che vince la solitudine della morte: si può anche perire ma “se è per amore non importa”.
E forse proprio l’amore per l’arte spinge Gabo a non fermarsi mai, permettendogli di superare anche la sua salute cagionevole: prima un linfoma di Hodgkin e poi, più recentemente l’alzheimer.
Dopo essere stato ricoverato per un problema respiratorio, Màrquez si è spento ieri a 87 anni.
Salutiamo il Nobel per la letteratura con una frase del colonnello Buendìa in Cent’anni di solitudine “non si muore quando si deve, si muore quando si può”