E’ oggi: con oltre dieci giorni di anticipo rispetto al calendario stilato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, e con sette anni di ritardo rispetto al calendario stimato dall’ex presidente Bush, la guerra in Iraq, durata circa sette anni e mezzo, è virtualmente finita.
L’allora “mr president” Bush aveva dichiarato “la fine dei combattimenti in Iraq il 1° Maggio” del 2003”, in un famoso discorso, quello della “Mission Accomplished” a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo. Secondo uno studio del governo iracheno, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), pubblicato dal New England Journal of Medicine, solo dal marzo 2003 al giugno 2006 sono 151.000 i decessi per morte violenta in Iraq.
Il premio nobel per l’economia, Joseph Stiglitz , nel suo “The Three Trillion Dollar War: the True Cost of the Iraq Conflict”, scritto assieme a Linda J. Bilmes, la maggiore esperta americana in materia di bilanci, pubblici e societari, ha stimato che i soli costi operativi, la conduzione quotidiana, della guerra in Iraq sono arrivati a 12,5 miliardi di dollari al mese(circa 5 mila dollari al secondo). Mettendoci anche l’Afganistan si arriva a 16 miliardi di dollari al mese: il bilancio dell’Onu in un anno, 4 volte le risorse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il triplo degli aiuti americani all’Africa e 2 anni di finanziamento della campagna mondiale contro l’analfabetismo.
La guerra più costosa dopo la seconda guerra mondiale.
Saddam Hussein è stato giustiziato per impiccagione il 30 dicembre 2006, in esecuzione di una sentenza di condanna a morte pronunziata da un tribunale speciale iracheno – confermata in appello – per crimini contro l’umanità.
Il finale è stato accolto come lieto dall’attuale premier Nouri al Maliki: ”L’Iraq è da oggi un Paese sovrano e indipendente” (quindi fino a ieri non lo era?).
Certo, come in quasi tutti i finali bellici la sensazione è un po’ gattopardesca: che dopo un gigantesco carnaio sia cambiato tutto per cambiare poco: poco per i soldati Usa di cui circa cinquantamila militari rimarranno ancora nel Paese, molti dei quali per oltre un anno, ma “svolgeranno soprattutto mansioni di addestramento delle truppe irachene”, come promesso dalla Casa Bianca; poco per il Medioriente visto che lo sforzo militare diminuirà in Iraq ma aumenterà in Afghanistan; poco per i cittadini Iracheni a quanto pare visto che il premier al Maliki nel dichiarare l’autosufficienza militare del suo paese evoca ancora viva la presenza di “nemici interni ed esterni”.
E l’Iran?
La sensazione è che se qualcosa è cambiato in questi anni siamo noi, il nostro modo di percepire le diversità, l’universo migrante, l’Europa in senso moderno, noi che mentre commossi guardiamo alla fine (?) della dittatura prima, alla fase di transizione e alla guerra in toto poi, dall’altro applaudiamo alle deportazioni di migliaia di famiglie Rom perpetrate dal governo francese in questi stessi giorni.