CIVITAVECCHIA – “All’ospedale di Padova il 20 gennaio abbiamo allertato la direzione sanitaria, la prima settimana di Febbraio avevamo il test, il tampone pronto fatto in casa, e la notte del 20 Febbraio, in cui c’è stato il primo caso positivo Covid, abbiamo concordato il piano di azione con i dirigenti dell’ospedale”.
Queste le parole del Prof. Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell‘Università-azienda Ospedaliera di Padova. Si tratta di una delle più autorevoli voci a livello internazionale che con successo ha sviluppato il modello per far fronte all’epidemia Covid, parlando sin dall’inizio della contagiosità degli asintomatici. Se la città di Vò Euganeo è riuscita a contenere la pandemia è grazie all’intuizione e alla professionalità del Prof. Cirsanti. La redazione di Centumcellae News lo ha contattato per parlare con lui delle difficoltà che sta affrontando il nostro territorio con lo sviluppo di ben tre focolai.
Come noto, all’Ospedale San Paolo di Civitavecchia, tra la fine di Febbraio e il 10 Marzo, il virus, che si diffonde con le stesse modalità di Alzano Lombardo attraverso un paziente positivo entrato in Pronto soccorso e sottoposto al test solo quando è giunto nel reparto di medicina, si è propagato all’interno della struttura; il risultato sarà di: 70 operatori sanitari, 39 pazienti di cui 4 neonati con le loro mamme positivi, non includendo nel numero i familiari. Cosa andava fatto? Ci risponde il Prof Crisanti: “Mamma mia che disastro!”. Dopo aver messo in moto la macchina organizzativa sin dal 20 Gennaio, come sopra riportato, ci dice cosa prevedeva il piano di azione all’ospedale di Padova: “Da subito abbiamo deciso che nessuno avrebbe avuto accesso all’Ospedale senza aver fatto il tampone. Abbiamo immediatamente diviso i percorsi distinguendo tra coloro che presentavano sintomi covid e non. Tutti facevano il tampone. Se qualcuno, entrato per altra patologia, fosse risultato positivo sarebbe immediatamente stato spostato su l’altro percorso. In ogni caso nessuno è mai andato nei reparti senza aver fatto il test”. Per quanto riguarda il personale sanitario Crisanti puntualizza; “Abbiamo ripetutamente testato il personale soprattutto quelli esposti ai malati infetti. In particolare il personale del reparto di malattie infettive, il pronto soccorso e il reparto di diagnosi è stato sottoposto a tampone ogni tre giorni. Ogni volta che avevamo una positività ci isolavamo e facevamo il tampone a tutti i colleghi”.
Quale è stato il risultato di queste procedure e percorsi attuati sin da subito? “Su 6.000 dipendenti e 1-800 pazienti, in 8 settimane, noi abbiamo avuto 30 casi positivi identificati che non hanno creato nessun caso secondario”. L’Ospedale di Padova, che lavora in maniera integrata con l’Università, è il più grande ospedale in Italia ed è il centro di riferimento nazionale per le malattie emergenti. “Quello che abbiamo fatto noi si può poi rapportare con realtà più piccole. Il nostro è il modello ideale che ha delle gradazioni. E’ chiaro che il nostro modello è difficile da replicare perfettamente su scala nazionale, però ci sono veramente delle precauzioni da prendere. Tutto il nostro personale era obbligato a portare, sin da subito, le mascherine e utilizzare i dpi. Ovviamente ci vuole un laboratorio per l’analisi dei tamponi che sia in grado di sostenere questo sforzo altrimenti non si riesce. In assenza del laboratorio bisogna assolutamente fare riferimento sui mezzi di protezione passiva come le mascherine, allontanare tutto il personale con sintomi e prestare attenzione agli asintomatici”. E se mancano le mascherine e i dpi allora “si pone un problema di sicurezza sia per il personale, per i pazienti che per tutto l’ospedale. Diventa un problema di carattere sindacale con la direzione”.
Un ospedale con focolaio e numerosi operatori che si sono contagiati può essere dedicato Covid? “Quando si decide di dedicare un Ospedale covid non basta il nome , è ovvio che è necessario dare tutto il supporto alla struttura perchè senza la capacità di tutelare la salute degli operatori non è un ospedale covid, è un centro di contagio . Può essere tale se c’è la capacità di tutelare il personale e assicurare le cure ai pazienti altrimenti si aumenta il rischio di far infettare i medici e gli operatori sanitari e così via. Deve essere un ospedale in cui sono a disposizione da subito tutti i dispositivi di sicurezza ffp2 e ffp3 perchè per determinate procedure, per esempio le intubazioni, i lavaggi bronchiali e per qualsiasi operazione che necessita la manipolazione dell’apparato respiratorio del paziente, bisogna intervenire con i dispositivi ffp3”.
Fin dall’inizio il prof Andrea Crisanti ha sostenuto che la guerra si fa “sul territorio tracciando i positivi e non negli ospedali”, come nell’esperienza di Vò Euganeo. Eppure ,comparando il numero delle persone poste in sorveglianza e dei tamponi effettuati, si evince una discrepanza a ribasso per questi ultimi. E’ un problema di capacità dei laboratori? Continua il prof Crisanti: ”lo sostengo dall’inizio che è necessario tracciare il territorio. La mancanza di tamponi può, in parte, essere attribuita alla carenza di laboratori attrezzati da parte delle regioni ma per esempio, se si decide di investire milioni di euro nei test sierologici, che non servono a nulla, e non si investe nei tamponi lo trovo un po’ preoccupante”.
Sulla possibilità che il tampone dia un falso negativo, nell’esempio di persone con sintomi respiratori e negatività, il professore continua: “Qualsiasi attività umana è soggetta ad errori ma la maggior parte dei falsi negativi dipende da come viene fatto il tampone”. Ultima domanda sui tempi di reazione nei riguardi dei positivi: “Si inizia la terapia immediatamente, possibilmente a casa. Questo approccio in termini estesi ci ha permesso di diminuire progressivamente il numero delle persone sia nel reparto che in terapia intensiva. Abbiano sempre cercato di tenere, per quanto possibile, il malato fuori dall’ospedale. Intervenendo subito ai primi sintomi. A tutte le persone che accusavano sintomi covid abbiamo sempre cercato di fare la diagnosi con il tampone, e abbiamo sempre cercato di testare subito immediatamente i conviventi i parenti o altre persone che erano in contatto con il positivo”.
Un modello che ha funzionato e i numeri del Veneto dimostrano l’autorevolezza del Prof. Andrea Crisanti anche nel prendere decisioni coraggiose, contrastanti, ma vincenti con quanto indicato fin dall’inizio dall’OMS che, secondo il professore, “purtroppo ne ha azzeccate pochissime”.
Roberta Piroli